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PER LA PRIMA VOLTA L’UNIONE EUROPEA LEGITTIMA IL FALSO MADE IN ITALY SOSTANZIALMENTE : “UN FURTO LEGALIZZATO AI DANNI DELL’AGROALIMENTARE ITALIANO”

 

oggi si può produrre all’estero formaggi come Asiago o Fontina, ma anche prosciutti come Parma o San Daniele e tanti altri. Depauperando un patrimonio di tradizioni e culture imprenditoriali che hanno contribuito ad esaltare l’agroalimentare italiano. E non solo.

 

Con l’accordo CETA, l’Unione Europea legittima, in un trattato internazionale, l’attività di pirateria alimentare a danno dei prodotti Made in Italy più prestigiosi, accordando esplicitamente il via libera alle imitazioni, che sfruttano i nomi di produzioni nazionali, che spaziano dall’Asiago alla Fontina, dal Gorgonzola al Parmigiano Reggiano o al Grana Padano, ai Prosciutti di Parma, San Daniele, Veneto Berico Euganeo e Norcia.

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E’ quanto evidenzia, da tempo, la Coldiretti, che sottolinea come l’articolato di tale trattato si il preambolo di un precedente disastroso a livello internazionale oltre che la negazione di una cultura imprenditoriale che affonda le proprie radici nella storia e nelle tradizioni dell’agroalimentare non solo dell’Italia bensì dell’intera Europa.

La ratifica del CETA (Trattato di libero scambio con il Canada) da parte del Parlamento rappresenterà, infatti, non solo un danno irreparabile per un segmento di prodotti che oggi sono il “fiore all’occhiello” del nostro export (ormai prossimo a superare il 40 miliardi di €), quanto la negazione stessa della riforma normativa con cui l’Unione Europea istituì le certificazioni Dop e Igp (regolamento (CEE) n. 2081/1992) e la sua successiva revisione (regolamento (CE) n. 510/2006) oltre alla serie di norme che, superando le regole precedenti,  prevedono già il riconoscimento di DOP e IGP di Paesi terzi (cioè nazioni extra UE).

Il tutto per eliminare le incompatibilità della disciplina europea col sistema OMC e, specificamente, con gli Accordi TRIPs e GATT, oltre a recuperare, in base al par. 9 del regolamento (CE) n. 510/2006, l’opportunità di avanzare domanda di registrazione di prodotti di una zona geografica situata in un Paese terzo che si compone di elementi previsti per la registrazioni di una zona geografica situata in UE (i quali sono disciplinati al par. 3, dell'art. 5), oltre ché di elementi che comprovano che la denominazione è anche protetta nel suo paese di origine.

Una logica che poteva essere puntualizzata nella normativa  del regolamento del Trattato CETA. Invece, per la prima volta nella storia l’Unione Europea, si sono legalizzati in un trattato internazionale, non si comprende bene secondo quale processo mentale,  i principi della pirateria alimentare a danno dei nostri prodotti più prestigiosi, accordando esplicitamente il via libera alle imitazioni che sfruttano i nomi delle tipicità nazionali, con un danno, non solo di immagine, difficilmente quantificabile, almeno per ora.

Dopo un lunghissimo percorso, il nostro Paese è leader in Europa nella qualità alimentare con 291 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, e non si può accettare passivamente la banalizzazione di questo patrimonio conservato da generazioni e che per anni è stato difeso, senza comunque raggiungere risultati significativi, anche negli accordi di revisione dei trattati WTO.

Ebbene, se il nostro Parlamento si inchinerà alla “scellerata” volontà della UE comprometterà, privandolo di ogni tipo di tutela,  l’impegno delle imprese agroalimentari nazionali e cancellerà una cultura igienico-sanitaria che affonda le proprie radici nella storia.

Le iniziative contrarie al CETA è condivisa, con un'inedita ed importante alleanza, oltre che dalle Organizzazioni agricole (Coldiretti, Confagricoltura e Cia) da altri organismi: Cgil, Arci, Adusbef, Movimento Consumatori, Legambiente, Greenpeace, Slow Food International, Federconsumatori, Acli Terra e Fair Watch) che chiedono di fermare un trattato pericoloso per l’economia generale dell’Italia che sta faticosamente tentando di rialzare “la testa” da quella crisi che è comunemente stata definita la “più grave di tutti i tempi”.

 

La presunzione canadese di voler chiamare con lo stesso nome alimenti del tutto diversi è inaccettabile perché si tratta di una concorrenza sleale che danneggia i produttori e inganna i consumatori, ma non solo, visto che si rischia di dare origine ad un effetto “valanga” sui mercati internazionali dove invece l’Italia e l’Unione Europea hanno l’obbligo, in base alle norme di cui si sono dotati, di difendere i prodotti tradizionali e certificati che sono l’espressione di una identità territoriale non riproducibile altrove, oltre che essere realizzati sulla base di specifici disciplinari di produzione e sotto un rigido sistema di controllo.

E’ sulla base di questi principi che si deve considerare contraddittoria la proposta dell’UE, in quanto sottoscrittrice dell’accordo, e del nostro Parlamento, che “supinamente” si accinge a ratificarlo, verso un trattato che inizia a “demolire” i principi basilari di un sistema imprenditoriale garante dei prodotti base della Mitica “Dieta Mediterranea” che ha ottenuto, nel 2010, il riconoscimento dell’Unesco quale Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità con la seguente motivazione: "La Dieta Mediterranea è molto più che un semplice alimento. Essa promuove l'interazione sociale, poiché il pasto in comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità, e ha dato luogo a un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende. La Dieta si fonda nel rispetto per il territorio e la biodiversità, e garantisce la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e dei mestieri collegati alla pesca e all'agricoltura nelle comunità del Mediterraneo".

 

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